Sono un life coach e un formatore: ti aiuto a prendere la direzione migliore, rispettando la molteplicità che ti contraddistingue.
Nessuno ci insegna a padroneggiare la nostra voce e oggi il tutto si riduce al dono di saperlo fare, che alcuni hanno e altri no, quando invece dovrebbe diventare, a mio avviso, una materia di studio, almeno dalla scuola secondaria in poi, se non prima.
Non parlo dei corsi di dizione, che mi appaiono così ingessati spesso da farmi venire la gastrite, perché trovo che una leggera inflessione dialettale offra colore alla voce e non disturbi nessuno e penso che non sia necessario avere una parlata perfetta sul piano delle vocali chiuse o aperte.
Nel mio lavoro incontro spesso persone che mi vengono a trovare per noie vissute all’interno della coppia, quando le incomprensioni si fanno più presenti, solitamente nella fase in cui l’innamoramento e la passione iniziali si abbassano di grado ed è più facile far caso a comportamenti che prima non venivano nemmeno notati o sui quali si sorvolava tranquillamente.
Nel 1992 uscì un libro che in trent’anni è arrivato a 11 milioni di copie vendute e si è guadagnato il titolo di New York Times Best Seller.
A scriverlo fu Gary Chapman, autore, conferenziere e Counselor, specializzato in relazioni e si intitola “I cinque linguaggi dell’amore”.
In questo libro, più che mai attuale in un’epoca in cui le relazioni di coppia sono appese a un filo e tendono a durare sempre meno, Chapman parla di cinque comportamenti fondamentali che ognuno dei due partner dovrebbe offrire per far funzionale al meglio il legame.
A seguito di eventi particolarmente impattanti sul proprio sistema emotivo, o di cambiamenti drastici non voluti, generalmente le persone reagiscono in due maniere differenti: da un lato ci sono quelle che tendono a mettersi in discussione, a darsi le colpe per quanto è accaduto e non doveva accadere, anche quando a ben vedere le proprie colpe sono irrisorie; dall’altro ci sono quelle che macinano rancori e risentimenti verso gli altri, verso gli altri attori della scenografia, anche quando, se facessero un onesto esame di coscienza, potrebbero rendersi conto di aver sbagliato qualcosa.
Quando si diffondono informazioni personali su qualcuno senza il suo consenso, è in atto un pettegolezzo che può essere dannoso, perché può ferire i sentimenti delle persone coinvolte e danneggiare le loro relazioni.
Si dice spesso che il pettegolezzo è donna, ma esiste anche un esercito di uomini che hanno questa abitudine.
Tutti noi facciamo il possibile per non essere ingannati dagli altri ma, spesso, attuiamo inganni proprio nei nostri confronti.
Nell’inganno sono presenti due soggetti, l’ingannatore e l’ingannato. Nell’autoinganno, invece, questi due soggetti sono la stessa persona e siamo di fronte a un paradosso, molto simile a quello del Barone di Münchhausen, che si salva dal pantano che sta per inghiottirlo tirandosi fuori per i capelli.
La differenza tra noi e il famoso Barone tedesco sta nel fatto che, spesso, anziché uscire dal pantano ci rimaniamo invischiati ancor di più.
Molte volte, ascoltando i problemi di incomprensione e le aspettative frustrate di uno dei due attori coinvolti in una relazione, mi rendo conto che sta vivendo qualcosa di non voluto, qualcosa che va contro i suoi reali bisogni, ma che è sempre stato presente, sin dalle prime battute del rapporto.
Si nasce empatici, per la presenza di uno specifico gene che alcuni hanno e altri no, o avviene qualcosa di diverso?
Gli studi che ho fatto, a partire dalla mole di lavoro di Daniel Goleman, autore del libro INTELLIGENZA EMOTIVA, sono concordi sul fatto che il cervello del neonato sia predisposto, in un certo senso, a imparare l’empatia, ma che non abbia questa capacità già installata quando viene al mondo.
L’autosabotaggio consiste nel mettere in atto, involontariamente, pensieri, comportamenti, atteggiamenti che, anziché facilitare il raggiungimento dei nostri obiettivi, lo rendono difficile, se non addirittura impossibile.
È una dinamica che può essere piuttosto invalidante e sulla quale potremmo non solo fare un video breve come questo, ma scrivere un saggio di centinaia di pagine, tanti sono gli aspetti e le aree della vita in cui si può verificare.
Il funzionamento psichico di un individuo adulto dipende molto, come abbiamo visto in alcune puntate precedenti, dal rapporto avuto con la cosiddetta “figura di attaccamento” avuta nell’infanzia, in particolare nei primissimi anni di vita, quando il bambino dipende da una figura adulta, di solito la madre, e cerca in essa una “base sicura”, ovvero un facile approdo al sentirsi innanzitutto visto, ma anche compreso, accolto, ascoltato e protetto, soprattutto nei momenti per lui difficili sul piano emotivo.