Sono un life coach e un formatore: ti aiuto a prendere la direzione migliore, rispettando la molteplicità che ti contraddistingue.
In questa puntata vorrei affrontare un argomento che ritengo importante e sul quale mi piacerebbe darti almeno alcuni spunti su cui riflettere, nonostante per trattarlo in maniera esaustiva non basterebbero ore.
Oggi tocchiamo una tematica nella quale mi imbatto molto spesso quando tengo corsi di formazione a team aziendali.
Va da sé che non esistono noie relazionali solamente tra singoli, ma spesso anche tra reparti differenti, i cui rispettivi capitani si mostrano in competizione tra loro, dando vita a faide interne ancora più deleterie per l’azienda.
Al di là dell’etimologia e della storia di questo vocabolo, quando parliamo di relazioni umane va da sé che la responsabilità sia una dimensione imprescindibile e, se mi segui da un po’, mi avrai sentito ripetere fino alla nausea che dovremmo preoccuparci degli effetti dei nostri comportamenti sugli altri.
La psicologia sociale ha dimostrato da anni che esiste, nella maggior parte delle culture patriarcali, una sorta di “vigilanza sulla mascolinità”, che inizia a essere subita sin dalla più giovane età di un bambino, portandolo a notare su se stesso e sugli altri coetanei qualsiasi devianza dalla norma di genere imposta dalla cultura di appartenenza.
L’abitudine non è altro che una risposta a un evento che diventa automatica: pensa, ad esempio, alla prima volta in cui hai provato a guidare un’automobile e cerca di ricordare il senso di smarrimento che ti pervadeva, e il fatto che dovevi ragionare su ogni minima azione, come premere il pedale dell’acceleratore o del freno, mettere una freccia per svoltare, guardare lo specchietto retrovisore.
La solitudine, quando viene vissuta in modo negativo, porta con sé diversi stati d’animo, come la sensazione di non essere capiti dagli altri, il sentirsi diversi, e può sfociare in un ritiro sociale, dando vita a un paradosso: sto solo perché gli altri non mi capiscono e mi sento diverso, oppure gli altri non mi capiscono perché tendo a stare da solo?
Essendo un coach e ricevendo nel mio studio prevalentemente persone adulte che vivono noie all’interno della coppia, mi trovo ogni giorno ad ascoltare resoconti di relazioni languide, per i motivi più diversi.
La scelta di questo aggettivo non è casuale: “languido” sta a indicare qualcosa di debole, privo di forza, stanco e, quando una relazione si trova in questo stato, nella mia visione, è inutile fare il gioco delle colpe, dal momento che ragioni e colpe sono sempre ripartibili al 50% e limitarsi a individuarle non risolve il problema.
Manipolazione e dipendenza affettiva sono parole che immagino tu abbia sentito spesso, ma sulle quali, a mio avviso, al di là del saperle comunicare, c’è poca consapevolezza.
Se mi segui da un po’, mi avrai ascoltato più volte dichiarare che quando tengo sessioni di coaching, nella stragrande maggioranza dei casi, mi trovo di fronte persone che hanno dei problemi nella coppia e mi accorgo che quasi tutti derivano da posizioni di dipendenza affettiva e dalle varie sfumature di manipolazione inconsapevole che ognuno dei due partner perpetua con il suo ego.
Il tema di questa puntata l’ho scelto perché, ultimamente, torna nella maggior parte delle sessioni di coaching che sto tenendo con i miei clienti, come fosse una moda del momento.
Sto incontrando persone di ogni genere e di ogni età che, nemmeno si fossero messe d’accordo, mi portano il problema dell’intempestività delle loro reazioni, che si dimostrano inadatte al contesto, inopportune e, spesso, diventano ulteriori cause di incomprensioni, di relazioni che non funzionano, di conflitti con il partner, con i figli o con i colleghi.
Avere a che fare con un partner lunatico non è semplice e forse lo hai sperimentato o la stai sperimentando.
Il suo passare da momenti in cui è sereno, simpatico e gioviale a momenti in cui sembra che veda il mondo in bianco e nero è spiazzante, un po’ come fare un giro sulle montagne russe bendati.