Un approfondimento sul tema che ho introdotto nella precedente puntata di Briciole di Comunicazione (https://youtu.be/Ed6KkAPqDoI), con il quale andiamo insieme a vedere le due rispettive caratteristiche "sentimentali" degli appartenenti alla distonia dell'essere e alla distonia dell'avere..
Ognuno di noi è mosso, sul piano inconscio, da impulsi che hanno a che fare con il desiderio o con il possesso, secondo lo Psicologo e Psicoterapeuta Stefano Benemeglio, padre della Psicologia Analogica.
È proprio necessario fare un corso per mettersi nei panni dell'altro? Sapersi mettere nel punto di vista dell'altro, o essere incapaci di farlo, dipende anche dal grado di umiltà di ognuno, ma in certi casi è assolutamente consigliabile riuscire a farlo, anche solo per una mera questione di "sano egoismo", o semplicemente per non dover rimpiangere di non averlo fatto.
[Tempo di lettura: 4 minuti] La solitudine che molti stanno vivendo come individui, nonostante i continui contatti con gli altri tramite gli strumenti che ormai sono sempre con noi, era stata preannunciata più di cinquant'anni fa. Esiste un antidoto?
In un'epoca in cui tutto si muove sull'idea di autonomia e indipendenza personale, ci stiamo pericolosamente trasformando in "individui" e siamo sempre meno "persone".
Ha il suo apice nell'innamoramento, ha ispirato innumerevoli poeti e poetesse, ha spinto a fare pazzie un'infinità di persone e lo ha fatto sempre attraverso la chimica.
Do per scontato che tutti, anche il seduttore più incallito, mirino in fondo all'amore romantico.
Ci innamoriamo di chi può compensare i nostri difetti, le nostre mancanze, anche quelle che non confesseremmo mai neppure a noi stessi. Secondo la più evoluta - a mio parere - psicologia contemporanea1, il nostro desiderio non è mai, in realtà, verso una persona, ma verso il desiderio che quella persona prova: ci innamoriamo del desiderio dell'altro, desideriamo che ci desideri.
Spesso mi trovo a pensare cose veramente banali, come il fatto che l'umanità sia divisa fondamentalmente in due:
1 - Quelli che si muovono con il cuore e gestiscono il proprio ego, preoccupandosi anche degli altri, di come si sentono, di come farli stare meglio.
2 - Quelli che "prima vengo io", che pensano al proprio interesse e a quello dei propri famigliari (quando va bene), ma per il resto non si preoccupano di come stanno gli altri, o preferiscono non vedere.
Banale ed ovvio, ma sono uno che sa scorgere ormai al di là del bagliore accecante del banale e dell'ovvio. Mi trovo spesso a sguazzarci nell'ovvio, a fare voli pindarici su come, ad ogni modo, ci stiamo sguazzando alla stragrande tutti... in questo ovvio autoimmunizzante che ci fa continuare a dire “è così che funziona”.
Mi capita sempre più spesso nelle sessioni di coaching che tengo con i miei clienti, maschi o femmine che siano, di trovarmi ad ascoltare una serie di angherie subite, reali o presunte, da parte del partner. Sfoghi - che prontamente blocco sul nascere al massimo dopo cinque minuti - in cui la vittima da un lato descrive minuziosamente le mancanze del partner, dall’altro si trova a celebrare inconsapevolmente la propria capacità di sopportazione, in odore di santità.
Fin da bambini siamo stati abituati, chi più chi meno, a sentirci chiamare stupidi qualche volta, da amici, da insegnanti vecchio stampo, da genitori, da preti e compagnia bella. Credo inoltre che la maggior parte di noi abbia a sua volta dato questo titolo a qualcuno, magari solo col pensiero.
Prendiamo il primo vocabolario di lingua italiana che abbiamo a portata di click, ad esempio Garzanti, e leggiamo la definizione della parola STUPIDO: tardo nel comprendere, ottuso di mente, poco intelligente.
Chi ha avuto a che fare con uno o più stupidi nella vita, leggendo una definizione del genere potrebbe pensare "Magari!". Sì, perché lo stupido non è solamente tardo nel comprendere, ottuso di mente e poco intelligente. Lo stupido fa danni.
Gli studi sull'Intelligenza Emotiva, iniziati da Daniel Goleman negli anni ottanta del secolo scorso e tutt'ora in una fase molto fertile, stanno cambiando l’approccio al mondo delle emozioni, in maniera lenta ma continua, soprattutto in ambito lavorativo.
Se fino a circa trent’anni fa le aziende misuravano la validità di un candidato secondo i vecchi canoni del QI (quoziente intellettivo), oggi, nelle imprese più evolute e proiettate nel futuro, questa misurazione viene fatta su quello che possiamo abbreviare in QE (quoziente emotivo). In altre parole, si privilegiano i soggetti con spiccate attitudini relazionali come: consapevolezza di sé, gestione di sé, consapevolezza sociale e gestione delle relazioni. Tutte doti imprescindibili, ad esempio, per un leader che sia degno di questo nome.