Ho sentito di tutto, frasi che tornano più o meno così:
È da un mese che la/lo sento lontana/o
È da mesi che non mi considera
È da tempo che non mi desidera
Sono mesi che non mi cerca sessualmente
I copioni sono più o meno simili, ogni volta con dinamiche diverse, anche solo leggermente: nei racconti che ascolto è lampante che gli attori sono sempre una vittima e un carnefice.
Quando ho le prove sufficienti di questa dinamica in atto, sfodero la domanda che spesso riesce ad aprire gli occhi del mio cliente, in un attimo, a volte lungo, in cui mi guarda e resta in silenzio.
E tu hai permesso che accadesse per tutto questo tempo/settimane/mesi?
Qui possono avvenire due cose:
- Il cliente si rende conto che è proprio il suo essere vittima a reggere il sistema, che ognuno elegge il proprio carnefice già nel momento in cui si colloca nel ruolo di vittima, che basterebbe dire NO, allontanarsi, anziché entrare nel circolo vizioso della speranza che l’altro capisca e cambi atteggiamento.
- Il cliente risponde qualcosa che suona più o meno così: Sì, l’ho permesso perché la/o amo.
Con questo secondo cliente il lavoro è più lungo: trapela già nella sua risposta un desiderio inconscio di essere vittima, per giunta sacrificale a questo punto.
Gli altri possono sbagliare, come possiamo farlo noi.
Se un partner continua ad avere atteggiamenti fastidiosi, è perché l’altro glielo permette. Non dire, aspettarsi che l’altro capisca da solo certe cose, aspettarsi che cambi, che torni come era, e compagnia bella, sono atteggiamenti perfetti per rovinare la coppia e per avvelenarsi la vita. Ma l’essere vittima, per molti di noi, è salvifico a livello di identità e ci porta quasi sempre a pensare che sia l’altro ad essere sbagliato o non conforme al libretto di istruzioni che pensiamo di conoscere a memoria.
Perché non affermiamo i nostri desideri? Perché a volte non dichiariamo che qualcosa non ci piace? Perché non siamo chiari? Perché non siamo… adulti?
Qui si nasconde il vero problema, ciò che tiene in piedi tutte le tragedie (nel senso greco del termine) di questo tipo.
Secondo le Discipline Analogiche, che danno una lettura veramente approfondita anche sul piano simbolico e caratteriale di ogni componente della coppia, esistono quattro vincoli emotivi che possono impedirci di dire come stanno le cose e come vorremmo che fossero, senza false paure di ferire l’altro, senza il timore di perderlo, senza la spada di Damocle del giudizio o della disistima in se stessi.
Eccoli, per chiarezza:
- PAURA DI VIVERE UN ABBANDONO AFFETTIVO
- PAURA DI VIVERE UN SENSO DI COLPA
- PAURA DEL GIUDIZIO NEGATIVO DEGLI ALTRI (non c’è solo il partner nel ruolo di potenziale giudice, a volte ci sono alcuni genitori – nostri o suoi -, altre volte gli amici, altre ancora i figli).
- DISISTIMA IN SE STESSI
Se ti trovi spesso a lamentarti di come agisce o non-agisce il partner, quindi, puoi iniziare a pensare che, se si comporta in un certo modo (che non ti piace) e continua a farlo, accade perché tu non ti opponi, perché permetti che accada, perché non sai mettere dei confini e pretendi che l’altro ci arrivi da solo a individuarli.
Dobbiamo smetterla di voler modellare il partner come fossimo dei Procuste e potremmo iniziare col comunicare sempre ciò che ci fa star male e ciò che ci fa star bene (questo è già più facile per molti di noi).
Ovviamente c’è una enorme differenza tra il dire:
Ciò che fai (o che hai fatto) è disgustoso (in questo caso è l’altro l’oggetto della comunicazione e c’è un chiaro giudizio negativo nei suoi confronti, che difficilmente aprirà un dialogo o un confronto civile).
E il dire
Ciò che fai (o che hai fatto) mi fa sentire triste (in questo caso è chi parla l’oggetto della comunicazione, siamo in assenza di giudizio ed è molto più semplice intavolare un dialogo costruttivo per ambo le parti).
Ti lascio con un adagio del quale non ricordo il nome dell’autore, ma capita a fagiolo:
Non perdoneremo mai a chi ci ama le nostre rinunce in nome del suo amore.